Comunicato stampa quarta edizione 2013/14 - Fondazione MAST - Photography Grant on industry and work / 2020

Comunicato stampa quarta edizione 2013/14

FINALISTI CONCORSO GD4PHOTOART

Joan Fontcuberta su Óscar Monzón (Vincitore)

Óscar Monzón ha conquistato la ribalta internazionale con il progetto Karma, nel quale lanciava sguardi da paparazzo e da pubblicitario sulla cultura dell’automobile. La sua proposta enfatizzava il sortilegio di una tecnologia che agiva simultaneamente come oggetto di desiderio, feticcio e simbolo di potere, ma anche come contenitore di identità e di esperienza.
In Maya, Monzón prosegue la sua personale sociologia visiva, occupandosi ancora di pubblicità e identità come scenari fittizi deformanti la nostra esperienza vitale. Ma in questo caso Monzón sposta i suoi riferimenti critici verso scenografie proprie del cinema di fantascienza: la fantascienza che immagina mondi distopici di moltitudini solitarie e sottomesse al controllo di occhi che tutto vedono. Transeunti che sembrano automi incapsulati nel tempo, rispondono uno dopo l’altro all’appello dei richiami commerciali, gli annunci pubblicitari sono gli altoparlanti di un consumismo che formatta attitudini e comportamenti e, tra le righe, disseminano le patologie della mitologia capitalista: mercantilismo, alienazione e disumanità.
Il pensatore francese Michel Serres scrive con cinismo che dobbiamo amare la pubblicità, malgrado «diffonda falsità, esageri, riempia lo spazio di clamori mediocri e brutte immagini, faccia passare cose abominevoli per ambrosia divina, si moltiplichi secondo le stesse leggi di un’epidemia, intossichi e menta sempre». Sì, dobbiamo amarla, perché la pubblicità è una promessa di felicità, come la religione o la politica, ma a differenza di queste non nasconde il suo intento di persuasione e mostra le sue carte. Sono queste carte svelate e soprattutto i loro effetti manifesti, il punto dove Maya mette il dito nella piaga.
Guardando al contesto delle proposte fotografiche, qui non c’è volontà di fare da specchio, ma di essere radiografia e bisturi. A partire da scenari urbani del tutto reali, Monzón estrae tensione e inquietudine modellando una nuova versione della street photography che si andrebbe a collocare agli antipodi del documentarismo selvaggio di un Garry Winogrand, ma anche che trascende le forme teatralizzate di un Philip-Lorca diCorcia, o di un Jeff Wall. La vertigine e l’incubo tingono questo viaggio introspettivo sul “lato oscuro” della realtà rilucente delle apparenze. Uno scenario fatto di atmosfere dense e luci drammatiche contorna le istantanee di “un mondo felice”, ma di felicità disumanizzata, che Monzón ci mostra fusa nell’apocalissi.

Lars Willumeit su Marc Roig Blesa

Sin dai suoi albori, la fotografia, oltre che nell’arte e nella scienza, ha svolto un ruolo di primo piano nelle battaglie socio-politiche, documentando circostanze ed eventi. Nella sua accezione umanista, la fotografia ha spesso avuto la forza di imporre la riforma sociale dall’alto, per mano di un attore privilegiato come il fotografo Lewis Hine, anziché dal basso, come risultato di resistenza e rivolta.
Comunque sia, le ultime ricerche sui movimenti di fotografia operaia, un capitolo esplorato solo di recente nella storia della fotografia, hanno chiaramente dimostrato che all’inizio del XX secolo esistevano già prassi alternative e subalterne in ambito non solo europeo.
Il tema della fotografia in relazione al lavoro, alla sua visibilità/invisibilità e all’urgenza di trovare forme contemporanee di attivismo visivo in epoca postfordista è centrale nella prassi artistica di Werker Magazine, un collettivo composto dagli artisti Marc Roig Blesa e Rogier Delfos (in olandese Werker significa lavoratore).
La loro radicale pratica fotografica, basata sull’auto-rappresentazione, la pubblicazione in proprio e la critica dell’immagine, si ispira, senza alcuna coloritura nostalgica, ai movimenti internazionali di fotografia operaia degli anni venti e trenta del Novecento. Werker Magazine sviluppa ed esplora strategie di interazione e collaborazione volte a creare e a diffondere prassi collettive autonome di auto-rappresentazione in vari paesi (attualmente è in preparazione una serie di workshop in Spagna, Francia e Marocco), rivolte a diversi network istituzionali e a tutti i livelli sociali.
Il progetto Werker 10 – Community Darkroom è formulato per adattarsi alle specificità del contesto sociale e linguistico in cui si concretizza e si articola in tre parti: 1.) 10 Minutes photography course, 2.) Library, 3.) The eye of the worker (Corso di fotografia in 10 minuti, biblioteca, l’occhio/l’obiettivo fotografico del lavoratore).
Il progetto crea una situazione nella quale lo spazio espositivo, da luogo di contemplazione, si trasforma in uno spazio pedagogico in cui viene a comporsi una sorta di costellazione collaborativa che permette allo spettatore, solitamente passivo nel white cube della galleria d’arte, di assumere un ruolo attivo nei processi di produzione dell’immagine, oltre che nel re-editing e nell’analisi critica degli scatti quale forma di apprendimento collettivo. In questo caso il tema del workshop è la nozione di “lavoro invisibile” nel senso che, prima del workshop, esso funge da principio guida per i partecipanti al fine di creare le proprie fotografie di “lavori invisibili”, come potrebbero essere i lavori domestici, un lavoro informale, un attività di volontariato, di cura o di riproduzione. Ma fungerà anche da strumento di pensiero per il processo collettivo di editing e di impaginazione durante il workshop.

Francis Hodgson su Raphaël Dallaporta

Raphaël Dallaporta ha inizialmente attratto la mia attenzione con una serie di foto di mine antiuomo. Fotografate con disinvoltura come fossero prodotti commerciali, le immagini erano accompagnate da testi sobri che collocavano questi raccapriccianti strumenti all’interno dei confini del regno commerciale. Le mine erano economiche, efficaci e di tanti tipi diversi per soddisfare i bisogni dei clienti. Dallaporta aveva prodotto un nuovo tipo di accusa a catalogo e nel farlo aveva fissato le linee principali del suo percorso: trovare indizi in elementi piccoli o relativamente piccoli delle attività industriali specializzate e su larga scala che contraddistinguono la nostra epoca.
Lentamente Dallaporta ha ampliato il proprio raggio di azione. Ha rivolto il proprio sguardo verso l’archeologia, usando droni telecomandati che di solito vengono adoperati per la guerra. Ha mostrato alcuni dei tanti tipi di conoscenza impiegati nella costruzione delle ferrovie. Adesso, in un progetto che è cominciato come una commissione da parte del CNES, il Centro nazionale di studi spaziali francese, ha realizzato una serie di immagini su Symphony, il programma satellitare franco-tedesco.
Avviato poco dopo la Seconda guerra mondiale e sviluppato agli inizi degli anni sessanta del Novecento, il programma Symphony è stato un modo per le due nazioni ex avversarie di guardare avanti insieme con determinazione nello spirito del Trattato di Roma. Symphony era un sistema di comunicazioni satellitari, il primo in Europa. Ha considerevole rilevanza di per sé, essendo antesignano del GPS e di altri sistemi, precursore della rivoluzione nelle comunicazioni mobili, antenato del razzo Ariane… Ma per Dallaporta, Symphony ha anche valore metaforico: se le due nazioni riuscivano a sviluppare un sistema di comunicazioni, allora al tempo stesso stavano senz’altro sviluppando una reale comunicazione fra di loro.
Ma le peculiarità della storia di Symphony catturano l’attenzione di Dallaporta. Symphony è stato un matrimonio fra gruppi industriali giganteschi e anche se i satelliti non hanno mai trasferito traffico commerciale, i vantaggi per le società partecipanti sono stati enormi. Le immagini che Dallaporta propone delle antenne satellitari rimaste sono frazionate. Sottolineano come il tempo abbia cominciato a smantellare il ricordo che abbiamo di questi enormi progetti, progetti controversi eppure benefici, animati da senso civico e vantaggiosi per i privati. In due di esse, Dallaporta rinviene prove d’archivio di quelle prime fasi, che sono ormai lontane anni luce, storia antica. Symphony continua a vivere nei piccoli sistemi di comunicazione nelle tasche di tutti noi: la tecnologia è diventata normale. Sembra democratica. Ma non è sempre stato ovvio che dovesse essere così. E potrebbe sempre saltare fuori alla fine che non è così.

Devika Daulet-Singh su Madhuban Mitra e Manas Bhattacharya

Le macchine fotocopiatrici Xerox arrivarono in India all’inizio degli anni settanta. Da allora, per generazioni di studenti la “fotocopia” rappresentò un foglio di carta ambitissimo. Nell’India dell’era pre-digitale, era un modo economico e sostanzialmente unico che permetteva di accedere ai libri disponibili nelle biblioteche, per essere consultati quando necessario. Lavorare con una fotocopiatrice era, e lo è ancora, una piccola attività artigianale diffusa in tutto il paese.
L’onnipresente fotocopia, combinazione delle due parole “foto” e “copia”, non lasciava dubbi sulle sue intenzioni. Quasi sempre violava i diritti della proprietà intellettuale dell’autore ; scarsa, o nessuna importanza, veniva infatti data all’indicazione del copyright riportata nel libro. Nei campus universitari notoriamente si consumavano in fotocopia montagne di libri e appunti delle lezioni.
I due artisti, Madhuban Mitra e Manas Bhattacharya appartengono alla generazione per la quale la fotocopia era qualcosa di più di una riproduzione di un pezzo di carta, era l’accesso alla conoscenza a poco prezzo. Il loro primigenio interesse per il problema dell’obsolescenza, con particolare riferimento alla produzione industriale di apparecchi fotografici, si è esteso anche ai modelli ormai superati delle fotocopiatrici importate in India. Le loro fotografie danno vita a una relazione tra la fotocopia e l’immagine fotografica a due livelli. Entrambe sono il prodotto di macchine meccaniche che utilizzano la luce e, al tempo stesso, entrambe sono delle riproduzioni. Le differenze sono insite nella loro conformazione : la fotocopia non ambisce a durare, diversamente da quanto accade per la fotografia, e non può mai essere intesa come una vera immagine. Per sua stessa natura, la fotocopia è confinata in una zona grigia e gode della compagnia dei suoi lettori per un periodo di tempo limitato.
Con un approccio quasi documentaristico, Mitra e Bhattacharya creano una serie di fotografie che descrivono l’esperienza dentro e intorno alle piccole copisterie. Attraverso foto singole, dittici e trittici, gli angusti e squallidi negozietti sembrano veri teatri di monotonia. In queste fotografie mute, si riesce a sentire il rumore incessante della macchina che lavora a pieno ritmo mentre l’addetto si è ormai perfezionato nell’arte di fare fotocopie con velocità e precisione militaresca. Per dare un tocco di ironia a queste scene così noiose e ripetitive, gli artisti a volte creano un doppelgänger (sosia) accentuandone così la banalità esistenziale.
Vi è poi un altro gruppo di fotografie in cui la fotocopia e l’immagine fotografica si mescolano divenendo una cosa sola. Nel corso delle loro visite alle copisterie, gli artisti hanno raccolto le riproduzioni riuscite male e scartate, per poi fotografarle di nuovo, ingrandirle e presentarle come immagini. Non deve stupire che questi artefatti riflettano sulla fotografia e ne riguardino la natura stessa.